
Il capoluogo lombardo festeggia in duplice anniversario nascita e scomparsa di uno dei suoi figli più illustri, il romanziere e drammaturgo Emilio De Marchi. Forse per certuni suoi concittadini tuttora nell’alveo ombroso della misconoscitudine, invero il nostro veste nobili paramenti di ragguardevole prestigio nello scenario della letteratura tardo – ottocentesca, immerso in un provincialismo smaccatamente décadent contiguo al tramonto dei grandi ideali romantici nonché risorgimentali europei.
Il De Marchi nacque dunque a Milano nel 1851 ed alla stregua medesima nel destino di molti uomini sensibili alle arti deve la propria vocazione alla figura materna, ferma lumeggiante lanterna nella sua formazione e crescita. Smaliziato liceale al classico Beccaria, in totale autonomia terminò gli studi universitari laureandosi in Giurisprudenza.
Giovine estroso deliberatamente non conforme alle palafitte convenzionali della piccola borghesia materialista e gretta, partecipò alla disordinata stagione della Scapigliatura milanese in seguito tuttavia amaramente pentendosene e riedendo con il pensiero delle origini: una sorta di cristiana pietas per ogni creatura vivente acquisita grazie alle tenere conversazioni salottiere intrecciate con la madre sin dalla più acerba infanzia.
Alternò egli l’attività di romanziere e drammaturgo a tempo perduto con la vera professione di educatore. Morì nel 1901 d’emblée appena cinquantenne, lasciando la amatissima moglie Lina con i due figli.
Già nel titolo del primo romanzo Due Anime in un Corpo (1878) è possibile cogliere una ambigua oscillazione nella personalità dell’autore, in funambolico bilico fra la ribelle viziosa bohème di scapigliato etilista ed un ripiegamento pensoso su sé stesso, introvertito vòlto a cogliere con dagherrotipico realismo la quintessenza del vivere. Questa nuance sfumata, una tonalità morbida diverrà nel quadro della sua poetica di gran lunga dominante, accostandosi egli con raccesa sensibilità al sottobosco informe della Milano abitata da mendicanti, oppressi, meretrici, delinquenti, martinitt: tematica sì cara ai prosatori lombardi: dalle sventure del povero Giuannin di Carlo Porta sino alle esilaranti, tragicomiche giullarate buffe recitate in grammelot da Dario Fo, citando naturalmente l’eccellenza nella resa della prosa a ritrarre il contadinato fra le pagine dei manzoniani Promessi Sposi.
Per tal cagione il De Marchi è reputato al pari di Giovanni Verga un maestro del Verismo, la versione squisitamente italiana del Naturalismo francese.
Con La Bella Pigotta (1890) il nostro stende su carta quel che la critica letteraria considera il capolavoro, rappresentando su tela mediante tenue pennellate non scevre di sgargiante umorismo taluni mirabili ritratti di impiegati milanesi in bretelle e manichette, vittime dei soprusi arroganti del padronato lungo un ménage esistenziale condotta nella frenesia nevrastenica scartabellata alla rinfusa d’uno schedario d’ufficio: mosaico esemplare della nostra quotidiana routine dipinto tramite una terminologia profetica oltre un secolo fa.
Nel seguente Arabella (1893) egli prosegue idealtipicamente – strictu sensu weberiano – la ritrattistica grottesca della iconica milanesità del tempo, illustrando questa volta con sfumature maggiormente delicate, intimiste, con penetrazione psicologica talaltri confusi intrecci sentimentali insiti in qualsivoglia anima umana, preannunziando ante litteram quelle profonde immersioni nell’inconscio freudiano invero sì frequenti nei movimenti artistici del Novecento.
Un assoluto gigante come Luigi Pirandello deve alla mise en scène della ultima creazione demarchiana Il Redivivo (1896) le sue prime fortune di geniale autore teatrale, segno tangibile del ruolo da protagonista declamato a gran voce dal novelliere e drammaturgo milanese sul proscenio della decadente fin de siècle à l’italienne.